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Francesco Carracchia: la fotografia come arte


Sul mio tavolo da lavoro, accanto al computer, diversi cataloghi di Francesco Carracchia mi documentano la sua decennale passione per l’arte fotografica.
L’immagine… ma prima della fotografica mi sembra di vedere quella di Francesco, flâneur con la macchina al collo, distante dalla folla ma errante in essa, costantemente alla ricerca di una figura, di una forma interessante da fotografare e pertanto da comprendere (cum-prehendere), quel comprendere che abbraccia, come dimostra l’etimologia, una molteplicità di significati, i quali hanno a che fare con l’intelletto, la sensibilità, l’empatia, l’intuizione.
Comprendere, vocabolo usato e spesso abusato, e, a proposito della fotografia, qualcuno direbbe osé, obiettando che non c’è nulla da comprendere nell’utilizzo di una macchina, la quale scatta una fotografia a un oggetto o a un insieme di oggetti, che, successivamente, potranno essere manipolati anche con i mezzi che la digitalizzazione mette a disposizione.
Eppure, nessun vocabolo come cum-prehendere si attaglia meglio alla fotografia di Francesco Carracchia. Basta osservare le immagini scattate nel corso di tanti lustri, per intuire che esse sono orchestrate sì col cuore ma anche con l’intelletto e la sensibilità. Fattori che sottolineano e mettono sotto i nostri occhi di osservatori le molteplici sperimentazioni, intuizioni, prove, che affondano nelle esperienze maturate sin dalla giovinezza del nostro artista.
Uomo irrequieto, costantemente alla ricerca di qualcosa da comunicare: un’esperienza, un concetto, una sagoma ma in ogni caso sempre fedele nel tempo alla fotografia, al punto da indurlo a conseguire il Diploma presso “l’Accademia di Belle Arti” di Catania con una tesi sulla fotografia concettuale.
Adesso, è doveroso dare qualche cenno agli stilemi di cui Francesco Carracchia si serve, non senza avere accennato prima alla crisi delle Avanguardie artistiche verificatasi dopo la seconda metà del 900, crisi legata altresì anche alla diffusione della Pop Art, che si era servita della fotografia, come Duchamp di qualsiasi oggetto. A quanto sopra si aggiunga la democratizzazione delle arti. Infatti, l’opera d’arte, come si era abituati a fruirla, scompare. Al suo posto subentra l’accettazione dell’effimero, della frammentazione, della discontinuità, del caotico, per cui la nostra diventa l’epoca di una scelta incessante, della combinazione delle tecniche
artistiche con qualcos’altro, del double-coding, della parodia, dell’eclettismo, del decorativismo, dell’accostamento di molteplici stili e si potrebbe continuare all’infinito.
Per reazione a queste condizioni l’artista cercherà di ancorarsi a qualcosa di più stabile ed ecco riaffacciarsi, dopo qualche tempo di oblio, la fotografia come arte, fotografia che si rifarà a stili e stilemi già collaudati nel mondo dell’arte, appunto.
Ecco allora l’interessante fotografia “concettuale” di Francesco Carracchia, in cui la scrittura del reale e quella dell’immaginario, la scrittura della forza e quella della forma s’incontrano, perché fotografare, come dice l’etimologia, è scrivere con la luce e la luce è il mistero stesso della creazione, con la quale l’artista come il fotografo coglie la bellezza dell’immanente e la esprime attraverso il codice visivo della fotografia, non mancando di servirsi anche delle ibridazioni che il digitale consente.
La luce, dunque, come componente imperativa della visione, per mezzo della quale l’artista-fotografo com-prende quel brano di realtà, che si trova di fronte ai suoi occhi e, per forza di cose, verrà coinvolto anche nella gestione dell’occhio che fotografa.
La luce e il buio, il colore e la tenebra si alternano nel percorso artistico di Francesco Carracchia e di ogni artista che sia fotografo, pittore, incisore e così di seguito.
Come il pittore, anche il fotografo può vedere e rivivere un reale percepibile da ciascuno di noi, ma saranno loro, gli artisti, a presentarlo al mondo come “creato di nuovo”, soccorrendo, in tal modo, gli uomini nella costruzione consapevole della realtà, come un tempo aveva fatto la religione, secondo la quale l’essenza era anteriore all’esistenza dell’uomo sulla terra, e ciò permetteva di dare senso all’esistere.
Oggi, in epoca laica quanto altre mai, potrebbe accadere che la fotografia artistica insieme all’arte, messo da parte il fenomeno religioso tradizionale, potrebbero diventare un bisogno della vita in quanto strumenti per dare una coscienza più profonda all’esistere, perché in grado di sollecitare le nostre riflessioni sull’esserci (dasein) nel mondo. Di conseguenza, come nell’immagine pittorica, c’è anche nell’immagine fotografica una norma, che ci restituisce un vissuto tutto sommato fatto di normalità, come la forma di una pietra levigata dall’acqua, (v. foto: Omaggio a Jacek Yerca), una mano (v. foto: Siamo liberi?) un tronco d’albero (v. foto: Domani smetto) e tantissime altre, che sotto quell’apparente ordine nascondono o suggeriscono un pensiero, che cerca di com-prendere, di penetrare più in profondità nella psiche ma
anche nella realtà. Di conseguenza, l’immagine diventa un gioiello posto al collo delle cose, che si aprono alla parola, all’interpretazione, a nuove illusioni, a nuove allusioni in tessuti temporali sempre diversi, perché in relazione ai riguardanti. Infatti, un’immagine senza un osservatore si denota soltanto, si connota invece esclusivamente negli sguardi e nelle interpretazioni dei fruitori.
In altre parole, la fotografia concettuale di Francesco Carracchia si manifesta come fenomeno, da phos=luce, ed ecco che la luce ritorna come fatto fisico di “scrittura” del reale e quindi come fenomeno comunicativo.
Ma, dicevamo poco sopra, insieme alla luce c’è anche il buio, per cui quel fenomeno torna a velarsi, ma solamente per aprirsi ad altre interpretazioni, perché il pensiero è soggetto alla legge individuale in un flusso di relazioni non rigide ma elastiche, flessibili, che permettono ad altri riguardanti di incontrare le forme, relazionarsi con esse e poi lasciarle rifluire per altri… incontri. Ecco, a mio avviso, cosa ci comunicano, tra le altre cose, le immagini fotografiche di Francesco Carracchia.
In conclusione, nessuno può disconoscere che il mondo visibile è un’unità. Di una parte più o meno piccola si appropria il pittore, il fotografo, il disegnatore, l’incisore… e ce la restituisce attraverso una forma fatta di luce e di colore, che ci fa scoprire molto spesso un aspetto delle cose, che ci era sfuggito ed è questo l’obiettivo del nostro Francesco, a proposito dell’immagine fotografica, la concettuale in particolare. Essa richiede la pazienza del guardare, richiede attenzione, perché è ricerca del corpo opaco delle cose osservate, le quali, in ultima analisi, si apriranno all’intuizione del fotografo prima e del riguardante dopo e per ciò attendono parole.
La vita, la realtà non è dicibile, è nominabile solo da voci singolari, che sono per la verità parole, sillabe, nomi, come scrigni, che dicono del colore delle cose e allargano gli orizzonti del guardare. Osservando le fotografie o per meglio dire le opere concettuali di Francesco Carracchia mi convinco sempre più che il bello non cerca la verità, la contiene e, come sostenevano gli antichi Greci, il bello esprimerà anche il vero. È questo l’intreccio indissolubile in cui risiede la verità dell’arte.
Ed è questo quello che ci induce a cogliere Francesco Carracchia nelle sue tante opere fotografiche.


Lidia Pizzo

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